don Giuseppe Morosini - biografia
Il 3 aprile di ogni anno la nostra città ricorda don Giuseppe Morosini:
Medaglia d'Oro al V.M. di "MOTU proprio"alla memoria
MOROSINI DON GIUSEPPE, Cappellano, da Ferentino.
"Sacerdote di alti sensi patriottici, svolgeva, dopo l' armistizio dell '8 Settembre 1943,
opera di ardente apostolato fra i militari sbandati, attraendoli nella banda di cui era cappellano.
Assolveva delicate missioni segrete. provvedendo altresì all'acquisto ed alla custodia d'armi.
Denunciato ed arrestato, nel corso di lunghi estenuanti interrogatori, respingeva con
fierezza le lusinghe e le minacce dirette a fargli rivelare i segreti della Resistenza.
Celebrato con calma sublime il Divino Sacrificio, offriva il giovane petto alla morte.
Luminosa figura di soldato di Cristo e della Patria.
Roma, 8 Settembre 1943 - 3 Aprile 1944.
Tre figli a S. Vincenzo
Un detenuto di “Regina Coeli”, spregiatore di Dio, della fede e del sacerdozio, nel giorno della condanna a morte di Don Giuseppe Morosini aveva sghignazzato: “Voglio proprio vedere come muore un prete! Non potrà essere che la morte di un vigliacco”.
Vigliacco indubbiamente non poteva essere colui che era vittima della propria lealtà.
Don Giuseppe Morosini proveniva da una famiglia di Ferentino numerosa, profondamente cristiana. La mamma al primogenito ventenne, che alla nascita di Peppino aveva osservato: “Ma guarda un po'! A venti anni ancora un fratello!”, domandò: “Ti dispiace? Credi che ruberà un po' del tuo posto? ”.
Salvatore s'affrettò a rispondere: Macché! Del resto, se me lo rubasse tutto non ne sarei geloso. Ma penso che quando avrà la mia età, se andreamo qualche volta insieme, chi ci prenderà per fratelli? Mio figlio sembrerà!”. La mamma si limitò ad osservare: “ Se tu ne avrai dei tuoi, di figli, non troverai né tempo né modo d'andare a spasso con questo!
L'ottima genitrice donò tre figli - un Sacerdote e due Suore - alla Congregazione Vincenziana. Divenne famosa nella cerchia familiare una espressione che le sfuggì quando accompagnò Peppino al Collegio Leoniano, in via Pompeo Magno: “Ecco! Io ho fatto la balia per San Vincenzo!”.
Sacerdote
Prima di entrare nella Congregazione di S. Vincenzo il bravo ragazzo studiò nel Seminario di Ferentino, che era a circa cinquanta metri da casa sua. Ricco di vivacità e di energie si sentiva decisamente chiamato al sacerdozio, ma non al ministero diocesano e tanto meno…alla vita canonicale. Voleva diventare missionario. Diceva: “In missione c'è tanto da fare!”.
Dopo i due anni di noviziato a Roma venne mandato al Collegio Alberoni di Piacenza
per proseguire gli studi. Completò i corsi teologici al Leoniano, e il Sabato Santo dell'anno 1937 veniva consacrato Sacerdote, in San Giovanni in Laterano, da Monsignor Luigi Traglia, Vicegerente di Roma (ora Cardinale).
Musica e ragazzi. Così Salvatore, che di don Giuseppe tracciò un agile e commovente profilo biografico, riassume l’ opera sacerdotale del fratello.
Musica
Musica, naturalmente, in funzione d’apostolato. Desiderava diplomarsi in composizione e direzione d'orchestra. Intanto era ben lieto di collaborare alla riuscita delle manifestazioni religiose con le sue musiche, spontanee e melodiose. Il 5 settembre 1937 si conchiudeva a Ceccano il secondo Congresso Eucaristico della Diocesi Ferentino. Nella grandiosa processione, che si svolse dal Santuario di S. Maria a Fiume alla Collegiata di S. Giovanni, l'inno ufficiale, solenne e commovente, che sgorgava da migliaia di petti ed era accompagnato dalle bande di tutti i Comuni della Diocesi, era stato musicato da Don Giuseppe.
Nell’aprile del 1939 si celebravano solenni festeggiamenti per il ventennio della parrocchia del Quadraro. Don Rey -il Sacerdote che da Pio XII venne definito il Parroco delle trincee e dai suoi fedeli il Parroco del popolo - pregò Don Morosini di curare la esecuzione delle musiche liturgiche. Questi accettò con entusiasmo e condusse a termine l'impresa con perizia incomparabile. Curò poi le parti musicali del dramma Tarcisius, composto da Salvatore e rappresentato con successo, al Quadraro, nell'ottobre di quell'anno.
Ragazzi
Ragazzi. Pur non trascurando mai le molteplici attività sacerdotali si dedicò con particolare impegno all'educazione della gioventù. Nominato Assistente Ecclesiastico dell’ Istituto Marcantonio Colonna si consacrò con particolare impegno alla formazione cristiana di quegli studenti. Coi giovani si trovava nel suo elemento. Monsignor Cosimo Bonaldi, Cappellano Capo al carcere di Regina Coeli poi Parroco di S. Maria degli Angeli in Roma, lo definì il Sacerdote fanciullo, nel significato più elevato del termine, perché sempre conservò del fanciullo le doti più spontanee di freschezza, di sincerità, di entusiasmo.
Dopo un breve periodo come Cappellano Militare nel Reggimento Artiglieria Df. venne richiamato a Roma, donde partì in missione per vari paesi e della Sabina. Paesi tra i più dissiti e disagevoli! Appunto per questo a lui più cari. Suo fratello Salvatore trepidava per la sua salute. Egli rispondeva: “Avanti sempre, come soldato del buon Dio!”.
Quando il 19 luglio 1943 Roma subì il primo bombardamento egli era sulla breccia.
In quell’occasione vennero raccolti nella Scuola Pistelli ai Prati centocinquanta ragazzi delle zone sinistrate. Pregato di prestare la sua opera nella direzione della Scuola, Don Giuseppe accettò subito di buon grado. Venne il 25 luglio. I gerarchi, che erano a capo dell’Opera, se ne fuggirono asportando quanto più potevano dei viveri destinati ai ragazzi.
Don Morosini non si scoraggiò. Continuò nella sua assistenza sforzandosi di reperire ad ogni costo i mezzi indispensabili per mantenere quei poveri ragazzi. La sua industriosa carità sapeva vincere tutti gli ostacoli. Il cuore, animato dall'amore di Cristo, vince tutto. Confesserà poi ingenuamente a Mons. Bonaldi (ed era già in prigione): “Vorrei avere mille cuori: il cuore del martire, il cuore del confessore! Invece quel poco che ho fatto finora è nulla ed imperfetto!”.
Assistente di partigiani
Il 10 ottobre 1943 venne pregato di assistere spiritualmente una banda di partigiani dislocata a Monte Mario. Si recava nei loro nascondigli una volta la settimana per celebrarvi la Santa Messa. Presto però s'accorse che l'assistenza religiosa non bastava. Avevano bisogno di tutto: di scarpe, di vestiario, di viveri ed anche… di armi. Don Giuseppe si sforzava di procurare loro tutto. Sicché si trovò, quasi senza accorgersene, partigiano.
Del partigiano aveva il coraggio. Non però la stoffa integrale. Era troppo ingenuo. Non sapeva discernere il partigiano vero dal falso. S’imbatté casualmente con un suo studente dell'lstituto Tecnico Marcantonio Colonna e con lui, lavorando di comune accordo, rinsaldò i vincoli dell'antica amicizia. Ma non tutti erano schietti e sinceri come Bucchi. Nel gruppo dei partigiani autentici si erano intrufolati i traditori. Don Giuseppe facilmente cadde nelle loro reti.
Il 4 gennaio Don Morosini e Bucchi vennero arrestati.
In carcere
Anche in carcere Don Morosini non si smentì. Il 16 gennaio iniziava e dedicava poi al suo indimenticabile compagno di idealità e di carcere Bucchi una Fantasia Campestre, uno spartito di quarantatré pagine, nelle quali la sua vena poetica e musicale si sfogava in motivi freschi, immediati, sorprendenti.
Nella sua cella c'era un giovane di Civita Castellana, Epimenio Liberi. Non si erano mai visti prima. Liberi era in attesa della nascita di un bambino, e naturalmente il suo pensiero volava con nostalgia alla famiglia. Don Giuseppe comprendeva. Si sforzava di comunicare al compagno di sventura le luminose certezze della fede. Intanto gli donava quanto era in grado di donargli: le consolazioni della musica. Compose una graziosissima Ninna nanna, che deve aver tanto consolato il povero Epimenio. Non gli era dato di celebrare la Santa Messa. Vi suppliva come poteva. La sera si metteva allo spioncino della cella ed intonava ad alta voce il Santo Rosario, la confortante preghiera dei figli alla Madre Celeste.
Italo Zingarelli scrisse: “Ha echeggiato nell'androne, sonora e ferma, la voce di Don Giuseppe Morosini, che, fra i condannati a morte in attesa dell'esecuzione, è il più popolare. Don Morosini la voce dell’Apostolo ce l’ha. Ora il padrone delle carceri è lui, che può gridare che nel primo mistero glorioso si contempla la risurrezione di Cristo e quindi intona il Lodato sempre sia il Santissimo Nome di Gesu, Giuseppe e Maria, lui, che intercala nel Rosario, all’improvviso, una frase che suona come uno squillo di tromba e una sfida: Preghiamo per la nostra cara Patria ... Ed ecco che Don Morosini torna a darci un brivido gridando: Preghiamo per coloro che soffrono e ci ricorda che non soffriamo soltanto noi di Regina Coeli . .. Sacerdote di Dio, non ha rancori; dopo il quinto mistero glorioso dice a noi con la stessa voce e con lo stesso accento: Preghiamo per quelli che ci fanno soffrire! .. . Sono rientrato nella cella tutto sconvolto”.
La condanna
Naturalmente, mentre Don Giuseppe continuava il suo apostolato sacerdotale in carcere, chi stava fuori - famiglia, Superiori, Colleghi - lavoravano per la sua liberazione. Tutto inutile.
Il 22 febbraio si celebrò il processo al tribunale germanico di Via Lucullo. Un processo puramente convenzionale, che non durò più mezz’ ora. Don Morosini e Bucchi, insieme arrestati, vennero insieme processati.
Ognuno dei due, per salvare l'altro, cercava di assumersi tutta la responsabilità. La difesa di Don Giuseppe venne affidata ad un avvocato tedesco, residente da tempo in Italia. Questi attestò: “Nel mio lungo esercizio professionale non mi è mai capitato di assistere ad una scena simile: imputati che non solo non negano gli addebiti, ma quasi prendono gusto a rivendicare per sé la maggior responsabilità”. Conclusione: sentenza di morte per Don Morosini, dieci anni di carcere per il Bucchi, da scontarsi in Germania. Rientrato tranquillamente in carcere, anche quella sera Don Giuseppe intonò il suo Rosario.
La strage delle Fosse Ardeatine - 24 Marzo - nella quale vennero trucidati anche Marcello Bucchi ed Epimenio Liberi, lo scosse alquanto.
Un ricorso di PioXII allo stesso Hitler ebbe esito negativo. Di conseguenza la sentenza divenne definitivamente esecutiva.
Il sacrificio
Alle ore 4 del 3 aprile, lunedì santo, Mons. Bonaldi entrò nella cella 382 e comunicò a Don Giuseppe che la sua ora era venuta; tentò qualche parola di coraggio, ma il condannato rispose sorridendo: “Monsignore, ci vuole più coraggio per vivere che per morire!”.
Fece la sua confessione generale. Poi esclamò: “Quant'è bella questa giornata, e come mi sento tranquillo”! Chiese la grazia di poter celebrare. Gli venne concessa. Celebrò nell'infermeria del carcere come un santo attestò Mons. Traglia, che volle assistere personalmente il suo Sacerdote.
Quando giunse il furgone i soldati volevano applicargli le manette. Mons. Traglia si oppose energicamente. Sulla macchina salirono, con Don Giuseppe, Mons. Traglia, il Cappellano e i soldati. Sua Eccellenza Mons. Vicegerente intonò il Rosario. Al quarto mistero doloroso: Gesù condannato a morte Don Giuseppe sorrise dolcemente al Prelato. Giungono al Forte Bravetta. Il Sacerdote bacia ripetutamente il Crocifisso, che gli porge il Vescovo. Poi dice: “Ringrazio il Santo Padre per quanto ha fatto per me. Offro la mia vita per Lui, per la pace, per l’Italia”.
Il detenuto, che a Regina Coeli aveva sghignazzato: “Voglio proprio vedere come muore un prete! Non potrà essere che la morte di un vigliacco” s' incontrò casualmente con Don Morosini quando stava uscendo dal carcere per avviarsi al Forte Bravetta. Il Sacerdote, tranquillissimo, lo guardò, gli sorrise, gli fece un cenno di saluto.
Quell’ uomo come colpito da folgore, cadde di schianto in ginocchio e scoppiò in lacrime esclamando: “Che tu sia benedetto!”.
Qualche tempo dopo dichiarava a Mons. Bonaldi: “Lui è morto, ma a me ha dato la vita!”