L’esperienza del male è un’esperienza di morte (Marco 5,1-20)
Nella lunga descrizione che il Vangelo di Marco fa oggi di un indemoniato liberato da Gesù, possiamo rintracciare alcune caratteristiche specifiche del male nella nostra vita: “Egli aveva la sua dimora nei sepolcri e nessuno più riusciva a tenerlo legato neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva sempre spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo. Continuamente, notte e giorno, tra i sepolcri e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre”. La prima caratteristica è “la dimora nei sepolcri” che sta a significare che l’esperienza del male è un’esperienza di morte. Ci sono dei momenti, infatti, in cui ci sentiamo “mortificati”, avvertiamo che la vita non è più qualcosa di vivo ma di morto. E in aggiunta a questo il vangelo prosegue: “nessuno più riusciva a tenerlo legato”; cioè quest’uomo non è più capace di legami significativi che lo aiutino a non disperdersi nel suo malessere. L’ultima caratteristica è il gridare e il farsi del male da solo, cioè la rabbia verso gli altri e l’odio nei confronti di se stesso. Abbiamo così un quadro completo di una sintomatologia del male nella vita di una persona: sentirsi spenti, non trovare più legami significativi, essere arrabbiati e avere rancore per se stessi. In questo senso ci accorgiamo come non ci sia alcun bisogno di arrivare per forza alla forma eclatante di una possessione per fare l’esperienza del male. L’incontro con Gesù guarisce quest’uomo esattamente da queste cose, tanto che chi lo incontra subito dopo la sua liberazione lo vede “seduto, vestito e sano di mente”. E cioè libero da ciò che prima lo agitava, rivestito di nuovo di dignità e capace di ragionare nel modo giusto. In questo senso se il male ci frantuma, la fede in Gesù ci unifica nuovamente. Mi sembra una buona motivazione per coltivare la fede.
di don Luigi Maria Epicoco