Memorie storiche di don Paolo sesta parte
Così a Fumone. Saliti lassù con la banda, abbiamo rallegrato quella gente e nello stesso tempo ascoltato la storia di Celestino VO - Per il pranzo quelle buone persone hanno messo a disposizione ogni ben di Dio. Suonare però per quelle straducole e mantenere il passo se la suonata era una marcetta, non era facile e qualche nota scappava. Su Fumone allora, non so oggi, si diceva: "Quando Fumone fuma, tutta campagna trema" Ossia, temporale in vista. E l'altro detto: " Fumone cornuto, dove vai è veduto". Vastissimo infatti è il panorama che si gode di lassù. Nello stesso anno capitarono alcuni incidenti.
Narro per primo quello del Ch. Grandelmaier. Mandato a Ferentino in aiuto all'assistenza, si permetteva qualche fuori uscita in paese. Ex guardia svizzera, alto e nerboruto. Il suo italiano ne tradiva l'origine teutonica; e come tale non disdegnava il vino. Aveva comportamenti a volte ingenui, per non dirli puerili. Come l'uso dello specchio durante l'assistenza in aula, per sorprendere gli alunni che parlottavano. E ridacchiava. Ma chi coglieva in flagrante lo chiamava: "Tufenire" "Tu venire qua". Arrivato a tiro prendeva il mal capitato per i capelli della collottola e lo sollevava ripetutamente in alto. Un giorno venne a diverbio e forse a colluttazione con un fascista.
Quelli di Ferentino gliela giurarono. In combutta con quelli di Alatri, aspettavano solo l'occasione per dargli una lezione. Aspettarono il l° maggio, festa di S. Ambrogio centu- rione, patrono di Ferentino. Alla sera oltre la banda rinomata c'erano i fuochi in piazza S. Valentino. Consigliato di starsene in Istituto, volle uscire ed accompagnarsi ai ragazzi. Gli orfanelli di S. Agata avevano il posto riservato avanti alla chiesa di S. Valentino. Luigi, guardingo e sospettoso, attendeva. Arrivarono armati di nervo. Fu scompiglio. I fascisti assestavano un colpe e si ritiravano per evitare di cadere nelle grinfie di quell'energumeno, che non sapendo con chi prendersela aveva afferrato uno dei nostri per le spalle. Ilo ero sceso per comprare un gelato. Stavo risalendo il muretto, ma fui travolto, e con me il gelato. Non so come, isolatolo, lo spintonarono entro un bar. Qui ci fu uno scambio di sedie lanciate dai fascisti, prese a volo da Luigi e rilanciate. La faccenda diventava seria, il Ch. Tognini sale sul podio del direttore di banda e arringa la folla. Don Mazzucchi, allora vicario generale, che per l'occasione si trovava in casa, bofonchiando raggiunse la piazza. Resosi conto della gravità dell'incidente, trattò con l' Autorità civile intervenuta, facendo notare a loro che poteva l'accaduto diventare un caso diplomatico, essendo Luigi svizzero. Noi ragazzi, scesi come un branco di pecore a S. Agata, dopo aver atteso invano il ritorno di Luigi, siamo andati a letto. Risolto il caso, rientrò ad ora tarda. Al mattino lo vediamo uscire dalla tenda con l'asciugamano al collo. "Luigi, Luigi!" "Niente - niente, avere la testa dura”.
Ma l'indomani partiva per Roma. C'eravamo tutti o quasi quando prese la corriera per scendere in stazione. Trovandola troppo angusta, salì dalla scaletta esterna sulla cappotta. Toccava quasi la gronda del tetto. Uscì in seguito dalla Congregazione, fu ordinato sacerdote diocesano, parroco a Rossa in Val Calanca. Trasferito poi sul lago dei Quattro Cantoni in un paese che non ricordo. Colpito dal morbo di Parkinson, quando prima della morte andai a trovarlo con Fr. BANFI e Don Leo HEGGLIN, non ricordava più nulla. Pace!
Altro episodio sempre di quell'anno: la gita con la banda a Porciano accompagnati dal Ch. TOGNINI, da Don CREMONESI e Don Paolo TOSCANI, che conosceva bene quella località perché meta delle sue questue, e Don LAGO abbiamo messo in festa la piccola frazione. Abbiamo preso di petto la montagna da Tufano. Non c'era ancora la carrozzabile che oggi collega Porciano con Fiuggi, i Pozzi di Fumone, Alatri e Ferentino. Dopo alcune sonatine, a pranzo, ospiti nella scuoletta, ci hanno fornito ogni Ben di Dio. Uova, pane, formaggi, salumi. Si diceva che Don LAGO di uova se ne è cuccate una dozzina. Al Ritorno la comitiva si sciolse ..... e giù per la montagna verso Tufano. A me dava fastidio ed era di impedimento lo strumento. Ho preferito, come più comodo, farlo ruzzolare giù per la discesa. In ordine sparso abbiamo raggiunto la pianura, lasciando indietro gli anziani sacerdoti. Giunti a Tufano, Don Paolo TOSCANI, piuttosto corpulento e avanti negli anni, storpiò il piede destro da non poter più camminare .. Rimase con lui Don CREMONESI. Intanto il TOGNINI cercava di raccogliere i ragazzi disseminati per la campagna. Cadeva la sera - eravamo in autunno avanzato - e al giorno succedeva la notte. Don CREMONESI cercò in loco un aiuto tra la gente del luogo. Tutti si rifiutarono. TOGNINI, rimessa insieme la squadra dei ragazzi dominando con piglio la situazione, li radunò. Erano fuori strada. Speculò il cielo, si orientò e ordinò: "Di là, ragazzi".
Fu così che ci trovammo sulla strada maestra. Ci mise a passo di strada e cantando, arrivammo a S. AGATA, dove il direttore, preoccupato del ritardo ci attendeva. Una cena leggera e a letto. Solo al mattino si rilevò Don TOSCANI, che con Don CREMONESI avevano passato la notte a riparo di una casa diroccata. Don Paolo tenne il letto per qualche giorno. Riprese poi le sue peregrinazioni. Ma non la perdonò a quei di Tufano e si vendicò con una poesia di cui ricordo i primi due versi: "O Tufan, Tufan ingrato, troppo tardi conosciuto" - Forse perché portavo il suo nome mi prediligeva e mi prendeva con sé nelle sue peregri- nazioni in veste di questuante. Ne ricordo alcune. Con la bisaccia per le campagne di Ferentino. Alla domanda: "Che vuole Frà Pà?" "tutto, rispondeva, tranne le bastonate". Entravano allora nella bisaccia legumi, patate, cipolle, reste d'aglio. Portava poi sempre a tracolla una borsa per le misere offerte in denaro. Aveva preso il Quaresimale a Frosinone. Strada facendo mi recitava brani dei suoi sermoni, chiedendo il mio parere. Rivivono in lui gli anni passati nella sua diocesi di Parma, ove, ordinato, esercitava il ministero. Fu un fortunoso dissesto finanziario che lo condusse a Don Guanella.
Al tempo della spremitura delle olive si andava alla questua dell'olio nei frantoi, o "montani" in gergo ciociaro. Per mettere insieme pochi litri una giornata non bastava. Per allargare il campo ha comprato poi un vecchio mulo, che chiamò BARON. Durante la vendemmia di quell'anno mi prese a compagno. Il mulo era buono e non scalciava. Caricate e assestate due bigonce, prendemmo la strada del Belvedere. Il povero prete anziano se la faceva a piedi, io salivo con agilità e scendevo dal mulo. Non appena richiamati dai canti o dal vociare dei vendemmiatori, si entrava nel campo. Avvertita la nostra presenza partiva da loro la domanda: "ce l'hai il santino Frà Pà?", prima di dare l'ordine al capoccia di scaricare un canestro d'uva nella bigoncia. Don Paolo era munito di santini: nelle sue profonde saccocce aveva santi e sante, di poco prezzo. Partiva qualche lazzo, qualche frizzo, ma tutti stimavano e volevano bene a Frà Pà. Tanto è vero che in una lettera dagli U.S.A. del nostro missionario don Giovanni COLOMBI, viaggiando con emigranti Ferentinesi sulla nave sentì di lui ogni bene.
Ripreso il cammino, percorso qualche chilometro verso la Macchia di Anagni, prima di deviare per la Stazione ferroviaria, su uno stradello ai piedi di una collina, il mulo scivola e finisce nel fosso a confine tra la strada e il campo. Che fare per riportarlo, possiamo dirlo, in carreggiata? Si ricorse ad ogni espediente, visto che da parte sua opponeva resistenza. Don Paolo alla cavezza a tirare, il ragazzo a spingere l'animale sul di dietro. Scaricate le bigonce e poste nel fosso, con l'aggiunta di ramaglie, niente da fare. Non ci rimase che richiamare, gridando, l'attenzione di qualche contadino che lavorava nei dintorni. Venne infatti un uomo, privo di un braccio. Fu l'Angelo di Dio. Attorcigliò la cavezza attorno al braccio buono e con uno strattone riportò il mulo sullo stradello. Rimontò le bigonce e così abbiamo ripreso la questua. A mezzogiorno eravamo alla stazione, dove abbiamo consumato un modesto pranzo. A sera a casa, o meglio sotto la tettoia, a scaricare le bigonce piene d'uva, ma non della migliore. Estese poi il suo raggio d'azione e fece il carretto. Lasciò Ferentino per finire ad Ardenno Masino come cappellano .... per poi morire a Como il 30 agosto del 1932.
Per me fu un'avventura, un divertimento. Avevo 11 anni. Alla scarsezza d'uva da pigiare e fare del buon vino, che poi finiva sulla mensa dei Superiori e degli ospiti, si suppliva, per assicurare ai vecchietti un bicchiere, con la raccolta delle vinacce, che torchiate davano quello che in gergo veniva detto "acquato". Si usciva con la barella o portantina, con la bigoncia incastrata. Occorrevano due robusti ragazzi, e un terzo per un eventuale cambio. Si andava per le cantine dopo la svinatura. Per attirare l'attenzione si gridava: "chi ci dà la vinaccia?" Esaurite le cantine di città, si andava per le campagne. Era una faticaccia, trattandosi di vinacce non spremute né torchiate.
Terminata con ottimi risultati la Terza, il direttore, anche su suggerimento del fratello voleva mettermi al lavoro, in qualcuno dei rudimentali laboratori o botteghe: sartoria, cui si dedicavano di preferenza gli sciancatelli, ce n'era più di uno; calzoleria con Checco, falegnameria, prima con Giuseppe, padre di don Negri, poi con Damiani. C'era il fabbro con un solo apprendista. Ottenuto, a fatica, anche con l'intervento del Vescovo, il permesso d'impiantare una tipografia: macchinario e materiale di compositoria, strutturando dei rustici vicino al campanile, ne uscì un'aula, proprio con l'entrata dal campanile, adatta per una IV elementare. Richiesto, preferii la scuola.
1923-1924 IV elementare. Maestra la sig.na Giovanna Caliendo, di Ferentino. Forse era il suo primo incarico. Spendo una parola per lei, aprendo una parentesi. Con la sig.na, poi Signora Caliendo ebbi in seguito alcuni incontri. Il primo quando scesi a Ferentino nel 1938 per celebrarvi una delle prime Messe dopo l'or- dinazione sacerdotale del 24 settembre 1938. Dopo molti anni, durante le celebrazioni per l'80° della Casa 1908-1988 e il 40° della Parrocchia, parlando in salone agli alunni del plesso scolastico, da un nipote o pronipote presente, seppi che la Caliendo era vegeta e viva a Roma. Avuto indirizzo e telefono la rintracciai - abitava nella zona di Montesacro - e combinammo un incontro e un bel pranzetto insieme. Saputo poi della morte, ne suf- fragai l'anima con una S. Messa.