Memorie storiche di don Paolo nona parte
Ma era presto. Presi allora la via dei tetti. Camminando carponi sul colmo, per miracolo non sono andato a finire, dal lucernario che dava aria e luce ai servizi
del reparto delle suore, se, accortomi in tempo mi calavo nel sottostante locale per ritornare al punto di partenza. Si faceva buio, i ragazzi saranno a letto. Scesi da un tetto all'altro, nel locale deposito prevista per il giorno dopo, stavano lustrando le scarpe, assistiti dal CARUGATI. Che fare? Mi feci piccino piccino, scivolai lungo la parete per finire proprio ai suoi piedi. “AH canaglia! Sei qui” il castigo fu mite. "non andrai domani alla passeggiata con i tuoi compagni”. E tutto fini li. Quali impulsi interiori, radicati forse nel sub-cosciente mi
spingessero a questi comportamenti, non so ancora oggi dare una risposta.
È certo che più volte ho rischiato la vita. Tornando un giorno da una gita consueta, mi attira, sulla cima di un altissimo pioppo, un nido. Salgo come uno scoiattolo, arrivo a tiro, il nido era vuoto, il nido caratteristico del pendolino, a forma di fiasco. Altro giorno, non so come, mi trovo a piè del muro dell'acquedotto comunale. Dall'oblò sento scrosciare l'acqua. Volevo darmi ragione donde venisse. C'era un tubo per il troppo pieno. Tra le esortazioni delle donne "scendi ragazzo" e nonostante queste, sono salito per affacciarmi e vedere.
Curiosità? Bravate?
Nella successione delle mie memorie, sospendo la cronologia per riprenderla poi e chiudere il periodo o capitolo. Degni di nota sono la nostra partecipazione ai FUNERALI. Benedetti quella legge e quel giorno che vietò la partecipazione dei minori all'accompagnamento funebre, tanto più che la partecipazione era considerata solo come fonte d'introiti per sostenere le magre risorse economiche provenienti dalle rette dei Comuni o dal Ministero e dalle libere elargizioni dei benefattori, sollecitate tramite la stampa periodica del bollettino "CULTO E CARITA".
Nei sei anni e mezzo di permanenza a Ferentino, come orfano, non so a quanti funerali abbia partecipato. Qualche volta anche a due in un giorno. La partecipazione comportava: indossare la divisa, calzare le scarpe. Raggiungere la chiesa ove si svolgeva il rito funebre.
Le parrocchie a Ferentino erano: S. Ippolito, S. Maria Maggiore, S. Maria dei Cavalieri Gaudenti, S. Valentino, S. Francesco e non ricordo qual'altra. Intruppati, con la bandiera dell'Istituto a capo, per l'accompagnamento al Cimitero, a due tre chilometri dalla città, ci fornivano una candela di poco costo, che solitamente non tornava integra a casa. Assistere all'inumazione. Cantare "La pace dei Santi concedi o Signore”. Tornare a casa, riprendere i panni d'ogni giorno...e via. Per sfuggire a questa incresciosa partecipazione, più volte mi sono attardato nascosto in gabinetto. Era l'unico rifugio, ove non arrivava l'occhio vigile dei nostri assistenti la cui sorveglianza era assidua e oculata.
E che dire della richiesta di una Comunione a beneficio del defunto in suffragio del quale si celebrava la Messa. Il compenso poteva essere di 10-20 centesimi.
La popolazione voleva bene agli orfanelli di S. Agata.
La chiesa, pur non eretta in parrocchia, assolveva un compito prezioso, prestandosi i Sacerdoti della Casa all'ascolto delle Confessioni. Per la città era come un "rifugio”, per quanti, per motivi diversi, non ultimo la scarsa prestazione del clero locale, ricorrevano ai preti di S. Agata sempre disposti.
I Vescovi stimavano l'Opera nostra e ritenevano prezioso l'apporto pastorale. Oltre Mons. Bianconi, morto alla vigilia del suo 50° di episcopato nel 1922, il successore Mons. Fontana. Di Mons. Bianconi ricordo quando la salma partì da Ferentino per Priverno, sul sontuoso carro funebre, mentre di Mons. Fontana il suo ingresso a dorso di un mula bianca.
Si partecipava sempre in divisa alle grandi e interminabili processioni. Ricordo quella in onore di S. Ambrogio a cavallo, e soprattutto quella del Corpus Domini, che mi ha ispirato la poesia che segue. In particolare ricordo le mamme o chi per loro, al passaggio del gonfalone, sotto il quale a protezione e benedizione sporgevano i bambini, e le scariche improvvise delle castagnole, le bombe alte che rintronavano in cielo. Le soste obbligate per la bevuta e il cambio dei portatori. Chè se per il Santissimo bastava il prete, per S. Ambrogio in argentone i portatori erano almeno otto.
O CARE FESTE, FESTE PAESANE
Quando ritorna mi sovviene
La grande festa:
IL CORPO DEL SIGNORE.
Rivivo allor con grande nostalgia
Gli anni più belli della vita mia,
E rivedo
Poggiate solatie vestite di ginestre,
bianche lenzuola,
drappi e tappeti tesi alle finestre,
odorosi di spigo i copriletto,
riposti ad arte dentro i canterani
occultano le mura.
Porte e balconi pieni di gerani.
E tutta una verzura.
Di salvia e rosmarino profumate
son le viuzze. Petali di rosa,
bottoni d'oro, fiori di ginestra
misti con rosolacci e fiordalisi,
tra l'acre mirto: ECCO L'INFIORATA!
I sacri canti e il suon delle campane,
che si rispondono di torre in torre,
rapisce il vento della prima ESTATE.
Ritma il passo
la Banda:
il coro tace,
e tace il mormorio delle preghiere;
le rondini festose garriscono nel cielo,
annodano tra loro mille giri.
I Confratelli incedono incappati,
recando in mano i gocciolanti ceri,
dietro le croci, dietro gli stendardi,
il Prete con il Corpo del Signore
avanza grave sotto il baldacchino,
tra volute d'incenso e gli angioletti
che spargono di fiori il suo cammino.
Tra lumi e fiori entrano nel Tempio.
All'organo s'intona il "Tantum ergo"
Si curvano le teste riverenti……
E nel silenzio……
scende su tutti la BENEDIZIONE.
Frequente e pesante il ricorso ai castighi, sia personali come collettivi. Castighi tanto deprecati da don Bosco e da don Guanella, non solo con l'esempio esemplare lasciato ai seguaci durante i lunghi
anni passati in mezzo alla gioventù, ma anche negli scritti. Ho assistito a maltrattamenti da codice penale. L'uso della cinghia e addirittura della frusta. La cella. Oltre il caso limite già narrato debbo aggiungere
che funzionava un'altra cella. Uno dei primi a provarne le delizie, vicina com'era ai cessi, fu un artigiano, l'unico apprendista del fabbro.
Poteva avera 17-18 anni, tarchiato e nerboruto. Non so il motivo per cui l'assistente Mastrogiacomo lo mise in cella. L'uno e l'altro erano pugliesi, di Bisceglie.
Il giovanotto non attese molto a scardinare la porta della cella ed uscirsene. All'altezza dell'androne che dava in refettorio t'incontra l'assistente Mastrogiacomo. Dal diverbio e scambio d'insulti, vennero a propria e vera colluttazione, vantando entrambi che nelle loro vene scorreva sangue pugliese. Intervenne Grandelmaier, l'ex Guardia papalina. Prese l'uno e l'altro per la collottola e li separo. Era l'anno 1923.
Provai anch'io la cella e dico perché. Era un sabato e si rifacevano i letti. Era assolutamente proibito invadere lo spazio riservato al compagno. Mio vicino di letto era un certo Mosca, di Palo Ladispoli, o figlio del Capo stazione o del casellante dato che allora come oggi, c'era un passaggio a livello. Stavamo parlottando. Mas
trogiacomo, sospettando chi sa che cosa, quale fosse cioè l'oggetto, prese me per l'orecchio destro e Mosca per quello sinistro e tirando sempre più forte voleva sapere l'oggetto del nostro chiacchiericciare.
Ci siamo guardati in faccia e ci siamo ammutoliti. A me tocco immediatamente la cella. Non scardinai la porta perché non ne avevo né il coraggio né la forza. A 11 anni ....alla sera per l'ora di cena venne a liberarmi. Novizio, tubercolotico lasciò più tardi la Congregazione.
Stia in pace con Dio.
Sempre con il mio compagno Mosca, dopo un periodo di segregazione, ho provato anche la frusta. In una camera, già cella dei frati, questa volta non Mastrogiacomo, ma lo stesso direttore, don
Riccardo NEGRI, munito di uno staffile, come un domatore da circo.... giù sferzate sulle gambe nude, mentre noi poveri meschini per schivare i colpi, ci rotolavamo sul pavimento. Debbo confessare una mia cattiveria. C'era nella camera un orologio a pendolo entro la sua custodia di legno. Più volte senza riuscirci ho tentato di urtarla e farla cadere, tanta era la rabbia!
Il castigo più comune collettivo era "girare” 20-30-40 giri torno torno il cortile. Faceva parte dei castighi anche la privazione dei pasti...e peggio....nel caso di rifiuto per qualunque motivo, non solo
non veniva sostituito: fosse minestra, fosse pietanza, rimaneva sul tavolo per la sera o per il giorno dopo. Valeva cioè il detto “o mangi questa minestra o salti la finestra". A migliorare il tenore di vita venne un'ispezione ministeriale, provocata da denunce. Alla zuppa del mattino subentrò il caffèlatte. Il pane a sazietà, la carne anche se di bassa macelleria: sangue e trippa. A proposito di trippa. Attendendo
gli incaricati a turno, dopo la mensa, a lavare stoviglie, spazzolare i tavoli ecc. era uso dire la coroncina della Provvidenza. All'invocazione: “provvedeteci Voi”, abbiamo sostituito “erba e trippa per noi”.
Nonostante che la separazione tra Sacerdoti e chierici e le Suore fosse rigorosa, come la separazione tra gli orfani - studenti ed e gli anziani e quelli che allora si artigiani convivevano insieme chiamavano scemi o deficienti, e frequenti scritti e orali i richiami perché, anche fisicamente, si mettessero in atto tutti gli accorgimenti.
Basta leggere le lettere del Fondatore a don Paolo PANZERI. Non frequenti i richiami anche delle Autorità locali e di Roma, avvenivano sconfinamenti, che davano occasione a incresciosi episodi.
Ricordo la presenza di un nobiluccio, addirittura figlio di un Barone napoletano, certo Carlo DI STASIO, soggetto da psichiatrico.
Convinto di aver trovato il modo per andare sulla luna, aveva messo insieme tutto un arsenale di rottami, compresi rocchetti ed altri aggeggi. Naturalmente lo definivano i ragazzi un povero scemo.
Bastava anche solo, smozzicando l'epiteto in "Sc. - Sc." per mandarlo in bestia. Un giorno, eravamo tutti in cortile. Accolto e provocato, va in cucina e si arma di un coltello. Furioso ritorna in cortile, deciso a
fare fuori qualcuno. Fu un fuggi, fuggi, e il cortile dove egli furente si aggirava, rimase vuoto. La scena, con tutto il rispetto, richiamava l'episodio evangelico dell'indemoniato di Gadara. Solo un povero sciancatello era rimasto seduto su una panchina. Tutti si aspettavano che sfogasse la sua rabbia su quella povera creatura. Grazie a Dio, ammansito si ritirò. Fu poi allontanato come soggetto pericoloso.
AUGUSTO. Era il braccio destro di Suor Panizza, l'ortolana.
Obbediente, servizievole. Fu trasferito a Roma con altri anziani nel periodo cruciale della guerra, prima che la casa di Ferentino fosse distrutta dai bombardamenti degli alleati, che superata la strettoia di
Cassino, si avvicinavano a Roma. Accolto nel Ricovero di Via Aurelia, dove ancora in buona età è morto.
Noi si sapeva che aveva un terribile ribrezzo per i sorci, in gergo “la sorca”. Bastava dire: "Augusto, la sorca” perché finisse in escandescenze. Un giorno, sapendo che attingeva da una pozza per bagnare le colture, su di una tavoletta galleggiante, non so da chi, fu posto un topo grosso così; apriti o cielo. Armato di un sasso, sale il cortile tra i ragazzi, urlando e minacciando. Fuga generale. Intervenne la suora a calmarlo e tutto fini li
Gli anziani che volevano partecipare alle funzioni prendevano c'era un certo "Fuchitto" epilettico. Per gli insulti epilettici e le cadute posto in coro, i "buoni figli" sulla tribuna dell'organo. Tra gli Anziani
improvvise aveva il capo tutto bitorzoluto. Era del paese. Non era certo uno spettacolo cui i ragazzi potevano assistere. Eppure... in queste condizioni possiamo dire che la casa di Ferentino, più che un Istituto educativo-assistenziale , era un Ricovero. Erano i tempi, si dirà. E passi.
Nel giugno del 1923, tutti compresi, da una foto d'epoca eravamo 51 dni 5-6 anni ai 17-18. Sempre da una foto d'epoca, la squadra, o meglio vestiti da ginnasti in data 1 giugno 1925 eravamo 28. Di questi ricordo nome e cognome, che vi risparmio. Aggiungiamo i paggetti-luigini con divisa propria, la piccola squadra di scaut e abbiamo il quadro completo.